L’estenuante lavoro del testimone è quello di ricordare e di continuare a rievocare il proprio passato, nonostante possa essere doloroso, poiché l’obiettivo è di condividere l’orrore che ha vissuto sulla propria pelle, per evitare che ciò accada nuovamente. Tra i testimoni di questa atrocità si trovano delle donne che hanno cercato di brillare come delle luci di vita e, ora più che mai, tramandando la loro lucentezza alle generazioni più giovani.
Alla vigilia della Giornata della Memoria, venerdì 26 gennaio 2024, le classi quinte dell’I.I.S. Grazio Cossali, hanno avuto l’onore di ascoltare questa eredità grazie all’incontro organizzato dalla Biblioteca d’istituto, che ha visto come presentatori Enrico Grisanti, consigliere dell’Associazione Figli della Shoah APS, e Giuseppe Cavalli, consigliere della Pro Loco e responsabile del Museo della Stampa di Soncino. Mediante la proiezione del filmato “Punti di luce’’, presente alla mostra realizzata da Yad Vashem dell’Associazione Figli della Shoah, è stato possibile ascoltare e vedere i volti delle donne che hanno combattuto per la propria vita.
Di fronte alla disumanità e alla malvagità umana hanno continuato disperatamente a credere in un domani migliore e a tenere accesa la fiamma della speranza. Alcune sono state deportate da bambine, in un’età dove l’innocenza e la speranza non hanno confini e l’unica cosa a cui si pensa è andare a scuola e divertirsi. Invece, si sono ritrovate isolate ed escluse dal gruppo di amiche che frequentavano semplicemente perché venivano considerate inferiori essendo ebree. A loro era stato perfino negato il diritto all’istruzione, confinate a casa si preoccupano di ciò di cui una bambina non dovrebbe inquietarsi. Chiedevano alle loro mamme, con quegli occhi colmi di innocenza, quale sarebbe stato il loro futuro e se sarebbe toccato anche a loro lo stesso terribile destino. Altre donne sono state deportate quando hanno appena iniziato a vivere e a capire finalmente il senso della vita. Ognuno di questi volti femminili ha avuto una storia da raccontare e ciò che hanno in comune è la paura, il coraggio e la speranza. In questa tragedia, sono state separate dai propri cari e hanno dovuto passare quei tragici anni come “nessuno’’, carne da macello. L’istante in cui poggiavano il piede sul terreno, scendendo dai vagoni di deportazione, la loro persona si annullava. Il loro nome era diventato un numero. I loro capelli, che erano tratto distintivo di femminilità, venivano tagliati. Cadevano come le foglie d’autunno. I loro abiti e i loro averi non erano più di loro possedimento. La loro dignità umana fu uccisa, come la loro personalità. Costrette a sopportare tutto ciò, esse volevano mantenere, per quel poco che potevano, un alone di dignità sul quale aggrapparsi per sopravvivere. Infatti, tendevano ad aiutarsi a vicenda o a utilizzare ciò che si trovava per tingersi le labbra in segno di femminilità. Le donne tristemente rinchiuse in quegli squarci di inferno trovavano un appiglio per cercare di arrivare al giorno successivo. Ognuna di queste donne è uscita da quel braccio della morte con delle cicatrici, con dei rimpianti e con la consapevolezza di cosa sia capace la malvagità umana. Alcune di loro hanno avuto la possibilità di vendicarsi, di tenere in mano un’arma e puntarla contro il male, ma non lo hanno fatto. L’odio genera solo odio e lo spargimento di sangue porta ad altro spargimento di sangue.
Ciò che spinge l’ uomo a fare del male rimane incomprensibile, forse perché la profondità della cattiveria degli uomini è insondabile. Tuttavia, uno dei mali più grandi è l’indifferenza, un atteggiamento che la stessa Liliana Segre ha definito come fattore scatenante della violenza, dato che l’indifferenza stessa è già violenza.
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché
rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi
stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato,
perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi
niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non
c’era rimasto nessuno a protestare“.
Queste parole del pastore Martin Niemoller sono un chiaro messaggio che lancia un
appello di riflessione e di empatia a tutti, ma specialmente ai giovani.
Non si ricorda solamente per “ricordare’’, piuttosto per vivere ogni giorno come se
fosse l’ultimo e per conseguire un domani più luminoso che mai.
In tempi come questi bisogna coltivare ogni briciola di bene, nella speranza di una
fratellanza umana e di un lieto fine.
Abdelwahab Israa, Adrar Sara – 5^A LSU